“Una volta arrivati, si dividevano i maschi dalle femmine, ma, soprattutto, si svolgeva la seconda selezione: per la maggior parte tutto finiva già qui, anche se non lo sapeva…”
Lo sterminio nazista degli ebrei d’Europa fu portato avanti con modalità rese via via sempre più efficienti. Il campo di sterminio di Auschwitz è stato semplicemente il culmine di quest’opera di efficientamento, costituendo un meccanismo talmente perfetto da poter essere considerato a tutti gli effetti una vera e propria “fabbrica della morte”. Tale “fabbrica” andava avanti per “selezioni”, che avrebbero stabilito chi doveva morire prima e chi dopo: la sopravvivenza non era contemplata dal sistema, poiché, nell’ideologia il nazionalsocialista, gli ebrei, in quanto “razza nemica” degli “ariani”, dovevano essere cancellati.
Gli ebrei catturati erano caricati sulle navi o nei carri-bestiame “piombati”, cioè chiusi dall’esterno, con condizioni igienico-sanitarie a dir poco precarie: ammassati con poca acqua, servizi igienici assenti o inadeguati e nessuna fermata prevista fino all’arrivo. Il viaggio, inoltre, era volutamente lento: era qui, infatti, che si svolgeva la prima selezione, poiché i più deboli morivano durante il viaggio.
Una volta arrivati, si dividevano i maschi dalle femmine, ma, soprattutto, si svolgeva la seconda selezione: per la maggior parte tutto finiva già qui, anche se non lo sapeva. Anziani, bambini, madri con figli e in generale chiunque non fosse considerato abile al lavoro era avviato immediatamente alle camere a gas. A loro veniva detto “alle docce”. I prigionieri si fidavano, poiché sembra loro naturale che, dopo un viaggio del genere, fosse interesse persino dei loro aguzzini che fossero lavati, onde impedire il sorgere di malattie. Portati in una sorta di “spogliatoi” veniva detto loro di ricordare il numero del gancio al quale avevano appeso i vestiti perché poi avrebbero dovuto recuperarli. Infine, nudi, si entrava nella camera a gas. Questa era una camera chiusa, ma anche alta ed enorme: ad Auschwitz-Birkenau poteva contenere fino a 1500 persone. Una volta chiuse le porte dall’esterno, da finestrelle poste sul soffitto le SS facevano cadere dei sassolini di colore bluastro, ovvero pastiglie contenenti lo Zyklon B. Queste, a causa del calore, si scioglievano, sprigionando nell’aria acido cianidrico. L’effetto dell’acido era il seguente: i muscoli della respirazione venivano bloccati e, progressivamente, anche tutti gli altri muscoli. Le vittime, tuttavia, restavano coscienti fino alla fine. Questa arrivava prima per coloro che si trovavano proprio sotto le finestrelle da dove i granuli di Zyklon B venivano gettati, molto più tardi per chi si trovava distante da esse. Nel vano tentativo di respirare, le vittime, istintivamente, cercavano di raggiungere proprio quelle finestrelle, “ammucchiandosi” le une sulle altre. Perdevano sangue dalla bocca, dal naso e dalle orecchie e, qualche volta, gli occhi uscivano dalle orbite.
Quando tutto taceva, perché nessuno era più in vita, gli addetti del Sonderkommando aprivano le porte e si occupavano dei cadaveri: innanzi tutto, andavano tutti rasati, poi, quando presenti, bisogna cavare i denti di metallo dalle bocche dei più anziani. Infine, i corpi venivano bruciati nei forni crematori. Le ossa più grandi, più resistenti al fuoco, dovevano essere sminuzzate a mano, fino a farle diventare polvere. Le ceneri potevano essere smaltite in vario modo: usandole come concimi nei campi, per rendere le strade ghiacciate d’inverno meno scivolose, oppure, semplicemente, gettandole nel fiume. Ad Auschwitz c’era la Vistola ad accoglierle.
Ogni cosa appartenente alle vittime veniva riutilizzata: i vestiti e le scarpe venivano distribuiti alla popolazione del Reich, gli occhiali, composti di vetro e metallo, riciclati per fare altro (il metallo in particolare era prezioso in tempo di guerra), ovviamente gli eventuali preziosi e denti d’oro strappati ai cadaveri venivano incamerati nelle casse del Reich, con i capelli rasati si facevano coperte e feltro per gli stivali dei soldati, in particolari per quelli sul fronte orientale.
Ma chi erano gli addetti al Sonderkommando, coloro che si occupavano dei cadaveri? Erano altri prigionieri, scelti fra quelli più robusti. Essi non solo dovevano occuparsi dei cadaveri, dei loro vestiti ed effetti personali, ma anche chiudere materialmente le porte dietro alle vittime, prigionieri come loro. Se avessero rifiutato di fare questo, sarebbero stati uccisi immediatamente. Se invece avessero accettato “l’offerta”, sarebbero stati nutriti e scaldati adeguatamente allungando la loro speranza di vita media nel campo. Un’offerta simile veniva fatta ai selezionati per svolgere il ruolo di “kapò”, i prigionieri responsabili della disciplina di ogni baracca (che erano tenuti a mantenere picchiando duro con il bastone), dove alloggiavano coloro che avevano superato la selezione all’arrivo.
Questi venivano fatti spogliare, rasati a zero, lavati con un tubo da un SS che alternava acqua gelida e bollente. Dopodiché, venivano consegnati loro i ben noti “pigiami a strisce” e le scarpe. Questi indumenti erano stati precedentemente sterilizzati, poiché, prima di loro, erano stati usati da altri deportati, ormai morti. Giorno dopo giorno, bisognava lavorare laddove si veniva assegnati. La notte si dormiva nella baracca. Questa non era stata pensate per degli uomini: nell’idea dei suoi costruttori, Auschwitz doveva essere un enorme complesso di stalle nelle quali Federico II di Prussia intendeva custodire i cavalli del suo esercito. La baracca, in pratica, era una stalla, nella quale entrava molta aria fredda per via delle aperture pensate per il benessere dei cavalli, ma fonte di tortura per degli esseri umani. Le stufe non funzionavano, per volontà degli stessi nazisti, coperte non ce n’erano: l’unica fonte di calore era il corpo del proprio vicino.
Il rancio consisteva in una brodaglia con poco pane e verdure marce. Questo favoriva il progressivo dimagrimento patologico dei prigionieri, nonché malattie intestinali. A farne le spese, erano anche coloro che non erano stati abbastanza svelti o fortunati per accaparrarsi i letti superiori, costretti a ricevere anche gli escrementi dei propri compagni malati che dormivano sopra, al piano più alto (i letti erano sistemati su tre piani).
Ovvio che, in queste condizioni, nel giro di poco tempo anche questi prigionieri non fossero più in condizioni di lavorare. La cosa veniva verificata dalle SS ad ogni periodica selezione: quelli ormai giudicati inabili venivano avviati alle camere a gas. Inutile dire che, date le condizioni stabilite dagli stessi nazisti, prima o poi, toccava tutti.
Gli addetti al Sonderkommando e i kapò, tuttavia, mangiavano meglio e anche di che scaldarsi, cosicché potessero svolgere per bene i loro compiti. Per quanto riguarda gli addetti al Sonderkommando, però, alla fine toccava anche a loro: essi venivano uccisi alla fine di ogni Aktion, ovvero alla conclusione di un “ciclo di sterminio” per così dire, che durava circa tre mesi, al termine del quale tutti gli ebrei di uno stesso gruppo nazionale erano stati sterminati.
Dal canto loro, i kapò, scelti quasi sempre fra i criminali comuni di “razza ariana”, potevano essere destituiti e sostituiti in qualunque momento e arbitrariamente dalle SS, venendo ricacciati nella dimensione di semplici prigionieri ed esponendoli alle vendette degli altri prigionieri, nonché dei nuovi kapò. Il terrore che questo accadesse induceva i kapò ad essere inflessibili e spietati nelle punizioni anche della più piccola infrazione e nell’essere il più collaborativi possibili con le SS stesse, denunciando ogni comportamento anche minimamente “sospetto”, affinché la macchina dello sterminio procedesse senza intoppi. Per questo rivolte e tentativi di fuga all’interno dei lager erano eventi rarissimi: la presenza dei kapò li vanificavano sul nascere.
Più comuni invece i tentativi di suicidio, attuati gettandosi contro il filo spinato elettrificato. Questo costituiva un problema per le SS, perché bisognava ogni volta togliere il cadavere da lì. Per ovviare al problema, si era stabilito che, tra il campo e il filo spinato, vi fosse una linea da non attraversare, pena la morte. A volte le guardie del campo lanciavano un oggetto oltre quella linea ordinando al prigioniero di andarlo a prendere, poi gli sparavano. In questo modo ottenevano giorni di permesso, avendo impedito un suicidio e quindi la seccatura di rimuovere il corpo.
La presenza degli addetti al Sonderkommando e dei kapò era fondamentale per l’efficienza del campo di sterminio: non solo, nel caso dei kapò, per stroncare rivolte, tentativi di fuga o resistenza sul nascere, impedendo il formarsi di qualsiasi legame di solidarietà fra i deportati (fare la spia al kapò che a sua volta la faceva all’SS era un modo per guadagnare cibo e quindi sopravvivere, questo faceva sì che, per non rischiare più di quanto già rischiava, si isolava dagli altri), ma soprattutto delegava tutto il “lavoro sporco” e a contatto con le vittime alle vittime stesse. In questo modo i contatti tra SS e prigionieri erano praticamente assenti: le guardie del campo stavano soprattutto su torrette per sparare a chiunque superasse la linea, o, comunque, ai margini del campo, sempre per evitare tentativi di fuga.
Si evitava così, persino ai nazisti che lavoravano nella macchina di sterminio, lo stress psicologico che ne sarebbe dovuto derivare. E che ne era derivato, quando lo sterminio ancora procedeva con continue fucilazioni di massa e sepolture nelle fosse comuni con continuo contatto diretto dei carnefici con le loro vittime. Un’inconveniente che “la fabbrica della morte” aveva abilmente risolto.
Articolo a cura del Dott. Antonio Fabrizi