Una recensione cinematografica a cura del Dott. Antonio Fabrizi

In generale, ho molto apprezzato l’adattamento di Peter Jackson dell’opera di Tolkien, non solo per la bellezza e lo spettacolo, ma anche per il rispetto che, credo, il regista e sceneggiatore Jackson ha avuto per l’opera originale. Lessi i libri quando avevo 12 anni (oggi ne ho 27) e devo ammettere che spesso pagine del libro e scene dei film si confondono nella mia mente. Per fortuna, frequento persone appassionate di Tolkien che mi ricordano le differenze, anche sottili, che spesso passano un po’ in sordina. Ma c’è una differenza, invece, che ricordo bene da solo: il finale, anzi, i due finali, del libro e della versione cinematografica. Nel libro, infatti, il ritorno a casa di Frodo, Sam, Merry e Pipino non rappresenta affatto la fine delle peripezie dei nostri eroi. Al contrario, un’ultima battaglia li attende, quella per la loro terra e la loro libertà. Lo stregone Saruman, infatti, si è impossessato della Contea ed imposto un regime che deruba gli Hobbit delle loro risorse, ma soprattutto ha introdotto l’industria, che deturpa ed avvelena la loro terra. Merry e Pipino, forti della loro esperienza militare (dopotutto, sono stati entrambi in guerra), organizzano la rivolta, la cui “guida morale” viene assunta da Frodo. Alla fine, con il coraggio e l’astuzia, gli Hobbit sconfiggono Saruman e i suoi scagnozzi. Nella versione cinematografica tutto ciò non compare e il ritorno nella Contea prende una piega totalmente diversa: i nostri tornano, in groppa a dei cavalli e vestiti da cavalieri, in una Contea che li guarda con gli occhi di un vecchio Hobbit che spazza per terra, totalmente ignaro di ciò che è successo e del pericolo che la stessa Contea ha corso. Nei film, infatti, viene mostrato in modo chiaro che fine avrebbe fatto la Contea se Frodo avesse fallito la sua missione, gli stessi protagonisti ne diventano sempre più consapevoli man mano che la storia va avanti: “Siamo fuori posto, Merry. È troppo per noi. Alla fine, che possiamo fare? Abbiamo la Contea. Forse dovremmo tornarci” dice a un certo punto Pipino. Ma la risposta di Merry è lapidaria: se la guerra sarà persa “Non ci sarà più una Contea”. Ma al ritorno i nostri eroi si accorgono che per la gente della Contea non è successo nulla, anzi: sono piuttosto infastiditi dal loro abbigliamento (consono alla guerra, ma non alla vita tranquilla della Contea) e dal loro portamento. In effetti, sono molto cambiati: hanno rischiato la vita, provato sofferenze indescrivibili, creduto in grandi ideali, per poi ritrovarsi stranieri in patria. E così si siedono al loro tavolo, soltanto loro quattro, isolati, con il loro malinconico brindisi, senza nessuna gratitudine da parte delle persone per cui hanno intrapreso e continuato quella lotta nonostante avessero avuto “tante occasioni per tornare indietro” come ricorda Sam in un toccante discorso a Frodo per spronarlo a portare avanti la loro missione fino alla fine. Insomma, il mondo degli eroi e il mondo della gente comune nei film restano separati: gli eroi hanno fatto il loro lavoro, la gente comune ha proseguito la propria vita, tenendo il resto del mondo, con tutti i suoi problemi, fuori dai confini della propria terra. Ora, sono consapevole del fatto che ricalcare nel film il finale del libro, con la guerra nella Contea che avviene dopo l’epica battaglia finale ai cancelli di Mordor, sarebbe stata una scelta non adatta al climax della pellicola: dopotutto, nell’immaginario comune, la sconfitta dell’Oscuro Signore non può che coincidere con la fine della storia. Ammetto quindi che, con il finale del libro, il film non avrebbe avuto l’acclamazione di critica e pubblico che lo ha proiettato nell’Olimpo della cinematografia per l’eternità. Tuttavia, questa differenza tra libro e adattamento cinematografico è, a mio avviso, molto più rilevante di tutte le altre. Non si tratta di tagliare un personaggio per non appesantire la narrazione (come dimenticare il buon Tom Bombadil?) o per dare maggiore spazio ad un altro personaggio (nel primo libro è l’elfo Glorfindel a salvare la vita a Frodo portandolo a Gran Burrone, impresa che nel film, dove Glorfindel non compare, è svolta da Arwen, l’elfa amata da Aragorn): nel cambiamento del finale si finisce, infatti, per modificare il messaggio della storia. A questo proposito, dobbiamo osservare da vicino la natura degli Hobbit, creature nate dalla fantasia di Tolkien (a differenza di Elfi, Nani ed Orchi, presi da fiabe, miti e leggende) con i loro pregi e difetti, spesso impossibili da separare. È indubbio che gli Hobbit siano creature positive, con l’amore per la vita semplice e pacifica, lontana dalla guerra e dall’avidità. E tuttavia sono, per la maggior parte, accomunati dallo stesso difetto: l’illusione di poter lasciare il mondo fuori, di poter esistere senza curarsi di ciò che accade oltre i confini della Contea, quasi addirittura che non ci sia mondo al di fuori dalla Contea, la loro terra pacifica e perfetta. Nei film questo difetto viene poco trattato, emerge soprattutto alla fine, ma più come nota di colore o tutt’al più per dare risalto alla solitudine degli eroi e alla loro difficoltà a tornare alla vita di tutti i giorni. In ogni caso, è un problema dei protagonisti e ricade tutto su di loro. Nel libro invece gli Hobbit pagano caro il loro atteggiamento (che potremmo benissimo chiamare “provincialismo”): illusi di poter vivere senza curarsi del mondo, quel mondo, con la sua ferocia, arriva a soggiogarli, imprigionando, torturando ed uccidendo molti di loro. Anche se alla fine gli Hobbit si riscattano, dimostrando con la loro ribellione e la loro vittoria di cosa è capace la “piccola gente”, le cicatrici della dominazione di Saruman sulla loro terra resteranno per sempre. A differenza di Jackson, quindi, Tolkien non ha nessuna condiscendenza nei confronti delle sue creature, che pure ama. Non le risparmia quindi dalle inevitabili conseguenze della loro ottusità. Ecco quindi il messaggio di Tolkien: lasciare il mondo fuori è un’illusione che si paga cara e noi, gente comune, non possiamo contare su eroi solitari che si battano per noi, ma dobbiamo impegnarci in prima persona, perché facciamo parte di questo mondo (curioso, a questo proposito, che nella versione cinematografica “fate parte di questo mondo” sia detto agli Ent, che inoltre pagano la loro apatia con la distruzione di una parte della loro Foresta, ma ciò non venga mai detto agli Hobbit della Contea, che degli eventi narrati non sapranno mai nulla). A questo si aggiunge un ulteriore messaggio politico, non solo antitotalitario (dopotutto, l’anticomunismo di Tolkien è cosa nota), ma persino ambientalista, decisamente avanti per i tempi in cui l’opera ha visto la luce, veicolato solo in parte dal secondo film e lasciato da parte nel terzo, il gran finale, per una conclusione più elegiaca, ma anche più rassicurante.

Dott. Antonio Fabrizi

Nota a margine: tutte le citazioni cinematografiche presenti nell’articolo sono tratte dal film “Le due torri”, personalmente il mio preferito della trilogia cinematografica.