Una nuova analisi storico-culturale a cura del Dott. Antonio Fabrizi

Le uccisioni denominate con il nome delle cavità carsiche nelle quali i cadaveri delle vittime furono gettati coprono il periodo compreso tra il vuoto di potere determinato dalla scomparsa dello Stato italiano, a seguito dell’armistizio dell’8 settembre 1943, e la conclusione dell’Operazione Nubifragio, con la quale le truppe naziste conquistarono l’Istria, il 9 ottobre dello stesso anno. Ad essere presi di mira furono tutti coloro in qualche modo assimilati al regime fascista che per vent’anni aveva dominato quelle terre.

Gli autori di queste uccisioni erano soprattutto popolani, di etnia slava, ma anche italiana, come fra i minatori del bacino del fiume Arsia, nella zona di Labin/Albona, già nota perché, tra il marzo e l’aprile del ’21, si era formata una Comune socialista per effetto di uno sciopero contro le dure condizioni di lavoro e le violenze antisindacali dei fascisti.

Diverse le motivazioni di risentimento, sia di tipo sociale, in particolare per vendicare l’incidente della miniera di Arsia del 28 febbraio 1940, del quale dirigenti e funzionari furono ritenuti responsabili, o ancor prima per vendicare la dura repressione della sopracitata Comune di Albona, sia di tipo nazionale, in reazione all’italianizzazione forzata, passata attraverso il divieto di parlare qualsiasi lingua diversa dall’italiano (emblematico a questo proposito è l’assassinio, a Gorizia, di Lojze Bratuž, poeta sloveno che, per aver insistito nello scrivere e parlare nella sua lingua madre, fu costretto a bere olio di ricino mescolato a olio di motore dagli squadristi), nonché la distruzione dei luoghi della cultura slovena e croata, per esempio il Narodni Dom a Trieste e a Pola.

Forte risentimento derivava anche dai metodi di repressione adottati dall’esercito italiano contro la Resistenza jugoslava. Nell’area di Fiume in particolare avvenne la strage di Podhum, compiuta il 12 luglio 1942, dove, contestualmente alla distruzione del paese, alla razzia del bestiame e alla deportazione di anziani, donne e bambini nei campi di concentramento, i militari dell’XI Corpo d’Armata dell’esercito italiano fucilarono tutti i maschi tra i 16 e i 64 anni che riuscirono a catturare.

La storia di Podhum è quella più nota, ma l’intera provincia di Fiume (detta anche del Carnaro) fu teatro di eccidi ad opera dell’esercito italiano, pratica che divenne sistematica a partire dalla Circolare 3C del 1° marzo 1942, emessa dal generale Mario Roatta, che esponeva i metodi di repressione da adottare contro la Resistenza jugoslava. In essa si legge: “Il trattamento da fare ai ribelli non deve essere sintetizzato nella formula dente per dente, bensì in quella testa per dente”. È sempre nella Provincia di Fiume, inoltre, che sorse il più noto campo di concentramento fascista nell’area jugoslava, quello sull’isola di Arbe (Rab in croato), nel quale circa 1500 internati vi trovarono la morte per fame, freddo e malattie, nella noncuranza delle autorità militari. Lo storico Eric Gobetti riporta a questo proposito il commento del generale Gastone Gambara a riguardo: “Campo di concentramento non significa campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo”. La pratica d’internamento dei civili doveva servire a togliere ai partigiani l’acqua in cui nuotavano, pratica adottata per la prima volta dai britannici durante le guerre anglo-boere e già applicata con successo dall’Italia fascista in occasione della repressione della rivolta in Cirenaica (parte della Libia), anche in quel caso con numerose vittime.

Gli storici che si sono occupati di studiare quegli avvenimenti concordano però che ad essere colpiti dalla violenza popolare furono soprattutto, se non innocenti, dei “pesci piccoli”, come i carabinieri, presi di mira in quanto “braccio armato” dello Stato fascista, o i semplici impiegati pubblici, che certo non potevano essere in alcun modo autori di particolari eccidi o vessazioni, ma comunque considerati complici della classe possidente, come spesso accade nelle rivolte nelle zone rurali. E l’Istria all’epoca era un’area rurale, di scarso interesse strategico ed economico e per questo inizialmente risparmiata dall’invasione tedesca. Tuttavia, tanto i partigiani quanto le persone comuni sapevano che questo vuoto di potere sarebbe durato poco e che le truppe nazifasciste avrebbero presto occupato anche quest’area. Occorreva dunque sbrigarsi: si avevano pochi giorni per vendicarsi di vent’anni di oppressione, sociale e politica, e di invasione.

I principali responsabili delle ingiustizie pregresse, però, erano fuggiti per tempo. Ad esempio, il comandante dell’XI Corpo d’Armata Mario Matteo Robotti, che dopo l’armistizio si rifugiò a Ragusa presso la sua famiglia o il già citato generale Roatta, che dopo la guerra sfuggì alla prigionia, cui pure fu sottoposto, e trovò rifugio nella Spagna franchista, usufruendo infine dell’amnistia Togliatti. Gambara addirittura fu capo dello Stato Maggiore dell’esercito della Repubblica Sociale Italiana dal 19 ottobre 1943 al 12 marzo 1944. Catturato dagli Alleati e poi rilasciato, anche lui riparò in Spagna, per essere infine reintegrato nell’esercito italiano.

Un’eccezione è quella di Vincenzo Cujuli, capitano dei carabinieri al comando del Campo di concentramento di Arbe, che trovò la morte dopo l’armistizio dell’8 settembre, dopo essere stato catturato dai partigiani jugoslavi.

Secondo lo storico Eric Gobetti, le vittime di questa prima ondata furono circa 300. A cui vanno aggiunte le 200 giustiziate dal comando partigiano dell’area di Fiume, che cercò di subentrare allo Stato italiano come autorità garante dell’ordine, sostituendo alla violenza indiscriminata l’istituzione di tribunali popolari. In tutto quindi 500 persone. Secondo lo storico Raoul Pupo le vittime in questa fase furono tra le 500 e le 600, mentre il numero di 12mila si raggiungerebbe contando anche i caduti e i dispersi negli scontri, in quanto, sempre allo scopo di evitare rappresaglie, i partigiani occultavano i cadaveri delle truppe nazifasciste gettandoli nelle stesse cavità carsiche. Nel computo dei morti sono compresi anche gli ostaggi fucilati e sottoposti a “sepoltura rapida” nelle cavità carsiche dai partigiani in ritirata al momento dell’avanzata dei nazisti in Istria, la già citata Operazione Nubifragio.

A differenza che nelle altre zone d’Italia, dove i partigiani spesso finivano per non fucilare gli ostaggi presi nella speranza, il più delle volte vana, di creare un deterrente alle violenze nazifasciste, in Istria anche la Resistenza sapeva essere feroce. I resistenti dovevano aver pensato che prendere in ostaggio notabili fascisti avrebbe frenato l’avanzata tedesca. Quando si resero conto dell’inutilità di queste azioni, non potendosi tirare dietro gli ostaggi e non volendo lasciare testimoni che potessero denunciarli, il più delle volte li uccisero e ne occultarono i corpi, sempre convinti che questo sarebbe bastato ad evitare rappresaglie.

Una speranza vana: nel corso dell’Operazione Nubifragio le truppe nazifasciste uccisero 2500 persone fra i quali non solo combattenti, ma anche civili, sia slavi che italiani, spesso uccidendo persino i pochi ostaggi lasciati andare dai partigiani in ritirata, ritenendo che fossero vivi grazie a un qualche accordo coi loro ex carcerieri, quindi, ai loro occhi, grazie al tradimento.

Del resto, sul confine nord-orientale dell’Italia, la Resistenza ai nazifascisti si componeva di tutte le etnie della regione: croata, slovena ed italiana.

Un caso emblematico fu la Brigata Proletaria, formatasi a Cave di Seltz (Venezia-Giulia) il 10 settembre 1943 ad opera di operai dei cantieri navali di Monfalcone e sbandati del Regio Esercito Italiano, intraprese il primo grande scontro nell’Italia settentrionale tra forze tedesche e forze della Resistenza italiana nella Battaglia di Gorizia tra l’11 e il 26 settembre 1943, a fianco di forze partigiane slovene (per quanto non senza contrasti dovuti alla già chiara intenzione di queste ultime di annettere quelle terre alla Jugoslavia). La Brigata fu annientata nella battaglia, coloro che sfuggirono alla morte o alla cattura confluirono in altre formazioni partigiane, come il primo Battaglione Garibaldi al comando di Mario Modotti (che fu fucilato dai nazisti il 9 aprile 1945), operante nel goriziano, e la quattordicesima Brigata Garibaldi Trieste combattente nel Carso e nel Collio, molto più a nord.

Dopo la sconfitta del Terzo Reich e della Repubblica Sociale Italiana, avvenne l’annessione dell’Istria e l’occupazione della Venezia-Giulia da parte delle truppe di Tito, non più semplice movimento partigiano, ma esercito di uno Stato, la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia. È a questo punto che, a fianco alla “resa dei conti”, si verifica quella che Pupo e Gobetti hanno definito “epurazione preventiva” ad opera dell’amministrazione jugoslava.

La “resa dei conti” è un fenomeno che la Repubblica Socialista Federale di Jugoslavia condivise con l’intera Europa del dopoguerra, compresi i paesi democratici, o comunque avviati sulla strada della democrazia, come la Francia o la stessa Italia. Essa fu perseguita senza particolari distinzioni tra le diverse etnie: se in Istria essa riguardò l’uccisione dei fascisti italiani, nell’entroterra jugoslavo fu diretta contro gli ustascia croati e i cetnici serbi, collaborazionisti rispettivamente della Germania nazista e dell’Italia fascista, nonché contro i domobranzi sloveni, anch’essi fiancheggiatori dei nazisti.

L’ “epurazione preventiva”, invece, fu una sua specificità e, contrariamente alla “resa dei conti”, fu diretta prevalentemente contro personalità italiane, in quanto d’ostacolo al progetto d’annessione.

In pratica, se la violenza tra l’8 settembre e il 9 ottobre 1943 fu spontanea, a partire dal maggio 1945 abbiamo invece un disegno politico di epurazione, non solo dei fascisti e dei fiancheggiatori dei nazisti, ma anche dei “reazionari”, termine con il quale si potevano etichettare tutti gli oppositori al progetto d’annessione della Jugoslavia di Tito.

I primi ad essere colpiti sono i militari che portavano la divisa della Repubblica Sociale Italiana:

Appena giunte nelle città della Venezia Giulia – Fiume, Gorizia, Trieste – spesso prima ancora che i combattimenti siano cessati, le truppe jugoslave (partigiani del IX Korpus ed unità regolari della IV armata) procedono al disarmo ed all’internamento di tutti i militari che portano indosso la divisa della repubblica di Salò, secondo una prassi correntemente messa in atto da un esercito vittorioso nei confronti degli avversari in armi. Tutt’altro che scontato – anche se non privo di precedenti nel corso del conflitto – e contrario ad ogni norma internazionale, è invece il trattamento riservato ai prigionieri (italiani o tedeschi che siano), costretti ai lavori forzati e molti dei quali periranno di stenti e malattie nei campi di concentramento e lungo la strada che conduce ai luoghi di detenzione. Particolarmente grave sotto questo profilo appare la situazione creatasi nel campo di Borovnica, non lontano da Lubiana, dove alcune migliaia di prigionieri, fra i quali vi sono anche civili, vengono reclusi in condizioni disumane e praticamente privi di alimentazione, e dove la mortalità risulterà altissima. Le condizioni di detenzione miglioreranno leggermente dopo il mese di agosto, quando l’amministrazione del campo passerà dalle competenze delle autorità militari a quelle del Ministero dell’Interno. La deportazione peraltro è preceduta da un certo numero di esecuzioni sommarie (nell’ordine presumibile di alcune centinaia), compiute in genere subito dopo la cattura e decise non solo senza previo accertamento, ma talvolta anche senza lo scrupolo della ricerca di effettive responsabilità personali in atti criminosi a conferma di come ciò che in sostanza conta, nel caso dei militari, non è tanto il riconoscimento individuale di responsabilità, quanto la colpa collettiva. In altre parole, appartenere alle forze armate fasciste significa di per sé essere considerati rei di morte, anche se poi l’esecuzione di una condanna che ha scarso bisogno di formalizzazioni – sono, del resto, momenti in cui si può uccidere senza burocrazia – dipende da mille fattori imponderabili, dal volere spesso inesplicabile di autorità disparate, quando non dalla casualità, com’è testimoniato dalla grande varietà nella gestione dei prigionieri.

Ma presto anche gli antifascisti vengono colpiti dalla violenza jugoslava:

lo dimostra, ad esempio, la sorte dei finanzieri della legione di Trieste, che non hanno mai concorso ad azioni anti-partigiane, che hanno collaborato con il CLN e partecipato all’insurrezione finale, ma che ciononostante vengono prelevati ed eliminati in massa.

Un massacro che ha il sapore di “processo alle intenzioni”:


Il punto è – in questo ed in altri casi, come quello della Guardia civica [istituita appositamente per sottrarre i giovani alla leva repubblichina] che aver combattuto contro i tedeschi negli ultimi giorni di guerra sotto il comando del CLN non costituisce affatto per gli jugoslavi un titolo di merito, anzi viene considerato come la prova del preciso intento delle stesse forze che già hanno sostenuto i fascisti di continuare a svolgere la loro funzione anti-slava mutando bandiera: e ciò non fa che aggravare, spesso irrimediabilmente, la situazione.

Anche se la Resistenza in Istria e nella Venezia-Giulia era stata fatta da slavi e italiani insieme, l’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia non tollera che esponenti del Comitato di Liberazione Nazionale (il CLN, la guida della Resistenza italiana), siedano nei posti di comando a Liberazione avvenuta. A questo proposito, gli ordini sono chiari:

Impedite che si proclami qualsiasi potere che si definisca antitedesco. Tutti gli elementi italiani di questo tipo possono soltanto consegnarsi e capitolare all’armata jugoslava di liberazione. Tutto ciò che agisca contro di essa è esercito di occupazione.”

Sulla base di queste fonti, per Pupo non ci sono dubbi, per i comandi jugoslavi:

Il nemico […]  si è trasformato, ma non è scomparso, non è più l’occupatore da combattere armi alla mano, ma chiunque con i suoi intrighi cerchi di vanificare gli esiti della lotta appena conclusa, chiunque cioè si opponga all’instaurazione della società socialista, vale a dire […] all’annessione dell’intera regione alla Jugoslavia.

Fra questi vi sono anche gli autonomisti fiumani i quali, afferma Pupo, a cavallo degli Anni Venti si erano battuti contro i fascisti per lo Stato libero di Fiume e durante il periodo dell’occupazione tedesca avevano attirato a loro vasti consensi fra la popolazione cittadina (pur non riuscendo a tradurre la propria influenza politica sul piano dell’organizzazione resistenziale, egemonizzata dal Partito comunista croato). E tuttavia:

Fino ai primi giorni di maggio perciò alcuni leader storici del movimento vengono trucidati ed altri costretti alla fuga, e nel giro di pochi mesi la possibilità che rimanga latente un polo di aggregazione alternativo rispetto a quelli previsti dal regime, viene radicalmente estirpata.”

Fra queste vittime, ricordo in particolare Angelo Adam, scomparso nel nulla, insieme alla moglie Ernesta Stefancich e alla loro figlia Zulema, dopo essere ritornato da Dachau a Fiume (oltre ad essere un antifascista, infatti, era anche ebreo), mentre Riccardo Zanella, guida del movimento autonomista fiumano e Presidente dello Stato Libero di Fiume tra il ’21 e ’22, prenderà la via di un secondo esilio (il primo era stato sotto la dittatura fascista).

Coerentemente con l’obbiettivo di eliminare qualsiasi potere concorrente, a Fiume la persecuzione dei comandi jugoslavi:

colpisce anche gli esponenti del CLN, secondo una linea che trova ampio riscontro anche a Trieste e Gorizia: numerosi sono infatti nelle tre città gli arresti e le deportazioni di aderenti alle formazioni della Resistenza italiana, e degli scomparsi solo alcuni faranno ritorno dai campi di concentramento dopo lunghi periodi di detenzione, mentre ancora nel 1946 […] risulteranno comminate da parte jugoslave condanne capitali contro reclusi accusati di aver fatto parte dei CLN.”

Il CLN è infatti “in grado di contestare l’esclusiva rappresentatività degli antifascisti giuliani”. Pertanto “dal punto di vista del movimento di liberazione jugoslavo appare come l’avversario più pericoloso, sia perché potenzialmente in grado di porsi come punto di riferimento per i giuliani contrari all’annessione al nuovo Stato jugoslavo, sia in quanto l’eventuale accoglimento in sede internazionale – siamo nel pieno della contesa diplomatica fra la Jugoslavia e le potenze occidentali per la definizione delle rispettive zone di occupazione nella Venezia Giulia – della sua istanza di riconoscimento quale legittima espressione della Resistenza italiana, farebbe cadere uno dei pilastri principali su cui si regge l’edificio dei poteri popolari appena costituiti nella regione da parte jugoslava, vale a dire la pretesa di rappresentare la totalità delle forze democratiche ed antifasciste, senza distinzione di nazionalità.

E a questo proposito, a collaborare agli arresti dei membri del CLN vi sono anche unità italiane, inquadrate nell’Esercito Popolare di Liberazione della Jugoslavia, i cui membri non si sono limitati a condividere l’obbiettivo di sconfiggere i nazifascisti, ma anche gli obiettivi rivoluzionari che ai loro occhi la Jugoslavia di Tito incarna.

All’opposto, nel perseguimento dell’obbiettivo parallelo di “resa dei conti”, “a Trieste, a Gorizia e in Istria trovano la morte, accanto agli italiani, non pochi sloveni e croati anticomunisti […]

A questo proposito Pupomette in luce“l’impegno mostrato da parte delle autorità e dei servizi di sicurezza jugoslavi nell’eliminazione di soggetti sloveni, o considerati di origine slovena, accusati di collaborazionismo e di simpatie per il movimento dei domobranzi -un impegno che le fonti oggi accessibili confermano particolarmente intenso, specialmente nel Goriziano […]”

Sono invece vittima dell’“epurazione preventiva” cattolici sloveni e croati (a posteriori, verranno ritrovati anche corpi di sacerdoti sloveni), malgrado, come già detto, in questo caso le vittime siano in prevalenza italiani.

Secondo lo storico Eric Gobetti, le vittime totali saranno tra le 4mila e le 5mila, che comprende anche coloro che morirono durante la prigionia nei campi di concentramento jugoslavi, la stima di Raoul Pupo oscilla tra le 3mila e le 5mila.

Come detto sopra, scopo primario dell’“epurazione preventiva” era conseguire l’annessione delle terre occupate, eliminando tutti coloro che vi si potessero opporre, prescindendo dalle responsabilità individuali e anzi non facendosi scrupoli nel colpire anche gli antifascisti, del CLN e dell’autonomismo fiumano.

Le pressioni anglo-americane, tuttavia, portarono alla ritirata delle truppe jugoslave dalla Venezia-Giulia il 12 giugno 1945, l’Istria invece, com’è noto, restò in mano alla Jugoslavia. Tale sistemazione fu confermata dal Trattato di Parigi del 10 febbraio 1947.

Iniziava a questo punto l’esodo delle popolazioni istriano-dalmate, che si sarebbe concluso intorno alla metà degli Anni Cinquanta e che vide il trasferimento pressoché totale della popolazione italiana (ma anche di un buon numero di sloveni e croati anticomunisti) nel territorio della giovane Repubblica Italiana. Un esodo durato circa sette anni, durante il quale migliaia di persone lasciarono il regime comunista di Tito per la democrazia italiana. Trattazione che meriterebbe un capitolo a parte.

Bibliografia

Raoul Pupo, Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l’esilio, Milano, Rizzoli, 2005

Bogdan C. Novak, Trieste, 1941-1954, la lotta politica, etnica e ideologica, Mursia, Milano, 1973

Pietro Secchia, Enzo Nizza, (Direttori); Ambrogio Donini, Celso Ghini, Pietro Grifone, Enzo Collotti ed Enzo Nizza (curatori), Enciclopedia dell’Antifascismo in VI volumi, vol. II (pag. 389 e seg. e pag. 602 e seg.), vol. III (pag.785), La Pietra, Milano, 1976.

Giorgio Bocca, Storia dell’Italia partigiana, Milano, Mondadori, 1995.

AA.VV. (a cura di Roberto Finzi, Claudio Magris e Giovanni Miccoli), Il Friuli-Venezia Giulia, vol. I (La seconda guerra mondiale capitolo scritto da Teodoro Sala, pag. 515-579), della serie Storia d’Italia, le Regioni dall’unità ad oggi, Torino, Giulio Einaudi Ed., 2002.

Marina Cattaruzza, L’Italia e il confine orientale, Bologna, Società editrice Il Mulino, 2007.

Sitografia:

Saggio di Pupo (storia900bivc.it)

Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia – A. Millo, Il disastro minerario del 28 febbraio 1940 alla miniera dell’Arsa (irsml.eu)

il ponte della Lombardia 

Isola di Arbe, la memoria rimossa del Lager italiano in Jugoslavia – La Stampa

Regione Storia FVG

I morti della miniera di Arsia, una tragedia più che annunciata – Il Piccolo Trieste (gelocal.it)  

Arsia, una tragedia ancora poco conosciuta / Transeuropa / Home – Osservatorio Balcani e Caucaso Transeuropa (balcanicaucaso.org)

ARSIA – 28 Febbraio 1940 – Gruppo Alpini “Gen. Pietro Zaglio” – Salce (BL) (gruppoalpinisalce.it)

1943 – ANPI (anpiudine.org)

untitled (anpi.it)

Gastone Gambara – FondazioneRSI 

Su Angelo Adam e sull’autonomismo fiumano:

Nino Raspudić: «L’antifascista Angelo Adam è meglio della stella rossa a cinque punte» (lavoce.hr)

Archivi P.Illustri | Associazione Fiumani Italiani nel Mondo (fiumemondo.it)

Qui un’ampia trattazione di Eric Gobetti (della durata di crica un’ora e mezza) sulle Foibe e anche sull’Esodo (non trattato in questo articolo):

Eric Gobetti sulle foibe – YouTube

E qui Raoul Pupo:

Confine orientale e identità: foibe e narrazione – Raoul Pupo (Università di Trieste) – YouTube